Il fardello silenzioso
Il cervello, la sede centrale della vergogna
La vergogna è una delle emozioni più complesse in assoluto. Non ha origine in una parte specifica del cervello, ma viene elaborata simultaneamente in diverse regioni. Risultano particolarmente attive le aree coinvolte nell’autovalutazione e nella percezione sociale, come la corteccia prefrontale mediale, e il sistema limbico, dove vengono immagazzinati i ricordi emotivi e le paure.
Un simile carico emotivo non rimane senza conseguenze. «La vergogna attiva il sistema dello stress», spiega la dottoressa Evelyn Mauch, specialista in neurologia e caposervizio di telemedicina presso santé24. «L’ormone cortisolo viene rilasciato in quantità maggiori e si attiva il sistema del dolore. Tra i sintomi comuni si annoverano palpitazioni, tremore, respiro corto e rossore al viso. Livelli cronicamente elevati di ormoni dello stress e proteine proinfiammatorie indeboliscono il sistema immunitario e alterano intere regioni del cervello.»
Quando la vergogna si trasforma in convinzione
Quando la vergogna è molto radicata nell’immagine di sé, la psicologia parla di vergogna interiorizzata, ovvero la convinzione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in sé stesse/i. Spesso questa forma di vergogna si sviluppa in una fase precoce della vita, ad esempio a causa di ripetuti rifiuti, umiliazioni o abbandono emotivo.
«Le reazioni tipiche sono la tendenza a rimuginare, l’isolamento e l’autosvalutazione», afferma Mauch. Chi ne soffre cerca spesso di apparire il più normale possibile. Ma è proprio questa pressione che può aumentare ulteriormente l’insicurezza interiore. Il desiderio di conformarsi non porta sollievo, ma fa provare una vergogna ancora più grande, dando inizio a un circolo vizioso.
Il ruolo della società
La vergogna non nasce dal nulla. Sono le norme e i valori sociali a determinare in larga misura ciò che è considerato giusto e ciò che non lo è. Chi si discosta da queste convenzioni sperimenta spesso una vergogna sottile o manifesta. Studi sociologici dimostrano che la vergogna ha anche una funzione di controllo sociale. Se la nostra natura o il nostro comportamento non sono conformi alle norme, la vergogna ci avverte che rischiamo di perdere lo status sociale, l’appartenenza o la reputazione, anche quando nessuno ci sta guardando.
I tipici fattori scatenanti sono le situazioni in cui le persone sono percepite come «diverse», ad esempio in caso di malattia mentale, disoccupazione o povertà. Chi non è in grado di lavorare a causa della depressione o altri stati di malessere si sente in dovere di dare spiegazioni o di giustificarsi. Questo tabù sociale rafforza il senso di vergogna dell’individuo, spesso in modo inconsapevole.
L’autocompassione come via d’uscita
La vergogna non è un «errore di sistema»: la sua funzione è quella di segnalare che l’appartenenza sociale è a rischio e pertanto mira a proteggere, non a danneggiare. Ma quando diventa cronica occorre cambiare strategia. La vergogna non va repressa, bensì interpretata come indice di ferite interiori o di bisogni insoddisfatti.
Un approccio promettente è l’autocompassione, che consiste nel trattare sé stesse/i come si farebbe con un buon amico, ovvero con comprensione anziché con severità. Praticare l’autocompassione può spezzare la spirale negativa interiore. Anche le terapie di gruppo e il sostegno sociale danno sollievo perché riducono la sensazione di solitudine.
La vergogna profonda è più di un momento passeggero. Può radicarsi negli anni, in modo silenzioso ma tenace. Questo processo tuttavia è reversibile. Chi riconosce la vergogna può trovare nuovi modi per accettarsi, recuperando così una parte della propria qualità di vita.